I Casamonica sono mafia
La Cassazione si è pronunciata: I Casamonica sono un clan di mafia
Per la giustizia quindi non ci sono più dubbi e così viene stabilito definitivamente che i componenti del clan non sono nè mele marce e nè criminali di poco conto. Sono mafia perché agiscono in gruppo e nell’interesse del clan. Basta il nome per incutere timore e proprio nella forza del gruppo si definisce il loro potere criminale. Sono cresciuti con le estorsioni e l’usura, ma è con il mercato della droga che i Casamonica hanno acquisito un certo grado di credibilità agli occhi di altre mafie ben più riconosciute, potenti e radicate sul territorio romano.
Le grandi bugie
Due grandi bugie hanno coperto la storia passata e recente dei Casamonica. In principio la bugia era questa: i Casamonica sono solo “cravattari”, criminali di origine sinti che mai sarebbero potuti diventare mafia. Sono stati quindi sottovalutati per pregiudizio e per incompetenza. Sono stati raccontati con i riflettori accesi quasi esclusivamente sul folklore, sul discutibile gusto per i mobili barocchi (che poche volte hanno realmente pagato) e le sfarzose cerimonie per celebrare la vita o la morte. Un racconto superficiale e grottesco (forse anche un tantino razzista) che per decenni ha permesso ai Casamonica di nascondere sotto il tappeto il grosso della polvere: il crimine, appunto.
La seconda grande bugia è averli esalti nel racconto come se fossero pari alla ‘ndrangheta o alla camorra, come se avessero il potere di controllare e assoggettare tutta Roma. Che poi, quale clan può farlo, in solitudine, dentro una città così grande e così complessa? Nessuno – perché Roma è una città aperta a tutte le mafie – e di certo non la mafia del clan Casamonica che esercita (senza ombra di dubbio e ben da prima di questa sentenza della Cassazione) un assoggettamento violento di porzioni del territorio, ma non di interi quartieri come pure è stato raccontato. Perché sentiamo l’esigenza di denunciare questa seconda bugia? Perché crediamo che la verità non possa esistere senza l’equilibrio del racconto.
Definire lo spazio e il potere di azione del clan Casamonica non significa sminuire la pericolosità, significa analizzare i fenomeni con onestà. Ecco perché diciamo che l’antimafia ha bisogno di professionisti, non come provocazione ma come punto di vista e metodo di lavoro. Intendiamo dire che ciascuno è chiamato a fare la propria parte con equilibrio: il giornalismo, la ricerca, la giustizia, la politica e l’antimafia sociale. Perché non si debba aspettare la Cassazione per dare il giusto nome alle cose. Per dire che la mafia è fallibile se l’antimafia è seria.
Una donna contro il clan
Se oggi la Cassazione ha potuto stabilire che i Casamonica – e nello specifico il clan Casamonica legato al quartiere di Porta Furba – è anche perché una donna ha rotto il muro dell’omertà e ha deciso di fornire alla Procura di Roma un prezioso tassello mancante: il racconto del crimine dall’interno, come nessuno aveva fatto prima di lei.
Bisogna partire dalla fine per raccontarvi questa storia. E’ il 2015 e una giovane donna scrive tutto quello che sa su un diario che consegnerà nelle mani di un magistrato. In quelle pagine ci sono scritti tutti i segreti del clan Casamonica, di cui lei stessa ha fatto parte per anni. Si chiama Debora Cerreoni, è l’ex moglie di Massimiliano Casamonica detto Ciufalo, ma soprattutto a 34 anni è già madre di tre figli che vuole strappare al loro destino
criminale. E’ per amore dei figli, infatti, che Debora decide di diventare la prima collaboratrice di giustizia nella storia dei Casamonica. Debora dentro la mala romana c’è nata e cresciuta, è figlia di un affiliato (di poco conto) della Banda della Magliana e ha scelto di sposare Massimiliano Casamonica, quando era ancora una ragazzina. Per lui è diventata spacciatrice, strozzina e prestanome, ma tutto le sembrava normale. La sua integrazione nella grande famiglia Casamonica non si è mai compiuta al cento per cento, perché Debora è una “Gaggia”, la chiamano così in senso dispregiativo, cioè una “non rom”. Anche Massimilano dunque, a modo suo, è un ribelle perché ha scelto di amare una “Gaggia”, contro le buone regole della tradizione familiare. Ce la mette tutta Debora a piacere alla famiglia di Massimiliano, ma ogni tanto si ricorda di non essere una rom, toglie la gonna lunga e mette i jeans, qualche volta fuma anche. E prende un sacco di botte. Debora non ha diritto a essere una ribelle soprattutto dopo che il marito finisce in carcere e lei è costretta a vivere da segregata in casa sua, controllata da suocera e cognate che sono le sue principali aguzzine. I Casamonica sono sempre più violenti e potenti, gareggiano dentro una città assoggettata alle mafie e tentano il salto di qualità: l’ascesa criminale nel mondo della droga.
Debora, sul suo diario, racconta dello spaccio di strada e del narcotraffico, dei vip finiti sotto usura, delle botte da orbi per poche centinaia di euro e dei locali notturni gestiti dal clan. Non si risparmia quando dà indicazioni sulla corruzione tra le forze dell’ordine, racconta delle entrature del clan perfino dentro il carcere di Rebibbia dove Debora, a colloquio con il marito, una volta viene picchiata nel silenzio complice delle guardie carcerarie. Si è meritata quelle botte perché Massimiliano ha scoperto il suo tradimento, Debora è andata a letto con un altro uomo e l’ha confidato a una sua amica, anche lei figlia di una affiliata della Banda della Magliana e moglie di un uomo vicino alla ‘ndrangheta, Massimiliano Fazzari, anche lui successivamente diventerà collaboratore di giustizia. Debora non ha più scampo, denuncia per salvarsi la pelle prima e per salvare i figli dal loro destino criminale dopo. Quando arriva a processo, nel 2020, Debora è cagionevole di salute ma determinata davanti a una sfilza di avvocati di difesa che la screditano appellandosi ai suoi tradimenti carnali. Due volte colpevole: in quanto criminale, in quanto donna. L’esito del processo però le darà ragione e per la prima volta i Casamonica saranno condannati per mafia.
Omertà e giustizia
Il maxi-processo che ha preceduto la sentenza della Cassazione sui Casamonica è stato lungo, difficile e pieno di “Non ricordo” da parte delle vittime. Quasi sempre per paura, qualche volta per complicità e collusione. Centinaia di intercettazioni e buone indagini hanno permesso di scavalcare i silenzi e leggere quei “Non ricordo” come prova del timore che incute il nome Casamonica. C’è stata però una vittima, un uomo, che la paura l’ha sfidata ma non ha fatto in tempo a godersi la giustizia perché è arrivata troppo tardi. Quell’uomo si chiamava Ernesto Sanità.
È una storia che comincia a metà degli anni 2000. Siamo nel quartiere Pietralata, Ernesto Sanità è un anziano, romano doc, e abita nelle case popolari. Da qualche anno la sua amata moglie è morta e gli resta un unico figlio adottivo e di origini afro, Giovanni, con cui ha un rapporto conflittuale. Giovanni non ha un lavoro stabile ma ha macchine di grosse cilindrata ed è sempre accompagnato da belle donne. Ernesto si vergogna molto, perché nella sua vita ha sempre lavorato onestamente – faceva il macellaio lui, la fruttarola sua moglie -, e capisce subito che Giovanni si è messo in brutti giri, almeno da quando frequenta Giuseeppe Casamonica detto ‘Bitalo’, capofamiglia del clan di Porta Furba. Un giorno Giovanni confessa al padre Ernesto di avere un debito di 300mila euro con Bitalo, si dice in pericolo di vita e costringe il padre a lasciargli la casa, quell’appartamento popolare che poi sarà occupato da Bitalo stesso come risarcimento per il debito usuraio non estinto. Ernesto cerca di resistere, ma ama Giovanni e alla fine cede, esce di casa e non sa dove andare a vivere, si divide tra l’ospitalità di amici e la strada, come un clochard. E’ il 2007 e sta per succedere il peggio. Una notte in discoteca Giovanni litiga con un uomo (mai identificato), che gli sferra un pugno sulla bocca dello stomaco e lo uccide. Neanche la morte di Giovanni ferma la vendetta usuraia di Peppe Casamonica detto Bitalo che pretende da Ernesto la risoluzione del debito e nel frattempo continua a occupare la casa di Pietralata. Ernesto sporge denuncia, i carabinieri gli ridono in faccia e non aprono alcuna indagine. Ernesto ormai è un uomo anziano che vive ufficialmente da clochard quando incontra una donna, povera quanto lui, ma con una casa. I due cominciano a vivere insieme, ma Ernesto non si dà pace per quella giustizia che non ha mai ottenuto.
È il 2011, Roma è fuori controllo, le mafie hanno alzato il tiro: è in corso una guerra tra clan che fa morti e feriti, come prima di allora accadeva solo nelle città del Sud. E’ il momento di reagire. Nella Procura di Roma arrivano tre magistrati esperti di mafie, hanno lavorato prima a Palermo e dopo a Reggio Calabria. Uno dei tre, il più giovane, comincia a studiare il clan Casamonica e capisce che è molto più di un clan di “zingari” che sguazzano tra i mobili laccati d’oro. Tra le vittime, il giovane magistrato viene colpito proprio dalla storia di Ernesto e apre un’indagine. Sul cellulare di Ernesto Sanità arriva un messaggio: “Vogliamo aiutarti”. Ernesto non può crederci, non vuole fidarsi troppo della Giustizia che l’ha già tradito, ma allo stesso tempo non può accettare di morire da codardo ora che è anziano e malato. E così collabora. Parte la caccia ai Casamonica che nel frattempo non sono più usurai e picchiatori di poco conto: gestiscono il mercato della droga, riciclano in locali e imprese e possono contare sui migliori avvocati in circolazione. E’ il 2018 e finalmente Ernesto vince la sua battaglia: può rientrare nella sua casa di Pietralata, dove ha vissuto una vita felice con sua moglie.
I Casamonica finiscono in carcere, Ernesto dopo due anni muore. Nel processo finale che condannerà i Casamonica, il nome di Ernesto echeggia come quello dell’unica vittima che ha osato denunciare il clan, l’unica da decenni.
L’unica totalmente estranea a quell’ambiente criminale che gli ha consumato la vita.