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Chiamami adulto
Oltre la paura: Lancini, Grimoldi, la miniserie "Adolescence" e il bisogno di ascolto
di Loris Antonelli
responsabile educativo ÀP – Antimafia Pop Academy


Roma, 27 marzo 2025 – Chiamami adulto. Titola così il libro appena pubblicato con Raffaello Cortina Editore di Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, fra le voci più autorevoli in Italia in tema di adolescenza, mentre nella più importante delle piattaforme televisive di streaming a pagamento spopola la miniserie “Adolescence“.
Un dato è chiarissimo, “Adolescence” ha impressionato e spaventato la generazione adulta, rapita da sgomento e smarrimento di fronte ad adolescenti che non conoscono e non capiscono.
Oggi la cameretta fa più paura di ieri, ma solo se non avevate letto “Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti“ di Mauro Grimoldi, nè niente di simile.
Ma gli adulti erano spaventati dagli adolescenti, magari meno consapevolmente, anche prima delle vicende violente magistralmente raccontate in circa quattro ore di immagini realizzate “in piano sequenza”, cioè senza mai staccare la videocamera dalla scena, che trascina lo spettatore sul luogo del delitto.
E così il titolo di Lancini, “Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti“, echeggia a metà fra il bisogno e la profezia.
Insegnanti e genitori sembrano inermi e confusi da ciò che coinvolge i loro figli e i loro alunni, dentro e fuori la scuola.
Il ragazzino qualunque, apparentemente fragile, introverso, gentile, quello che a tredici anni ha l’orsacchiotto sul letto, e può compiere gesti atroci e irreversibili, entra nelle fantasie di morte di ogni famiglia, può essere ovunque.
Nei molti commenti di persone colte ed autorevoli si coglie la paura degli adulti per un mondo mai conosciuto abbastanza, per i codici di comunicazione che appartengono alla generazione dei nativi digitali, per l’imprevedibilità che ogni adolescente cova nella sua intimità e per il nemico che si annida in rete, nelle mode, nelle challenge trend topic.
Tutto comprensibile, tutto molto estemporaneo, perché immagino che ogni adulto dopo pochi giorni tornerà a pensare che è una vicenda che riguarda altri, non i suoi figli, né i suoi alunni.
Allora che fare con questi adolescenti indecifrabili e pericolosi, prima che la vicenda ci tocchi da vicino e magari entri nella nostra scuola?
Ascoltare, prima di tutto, e accogliere il tempo che serve per crescere come un dato di fatto, piuttosto che un ostacolo da saltare di corsa.
In questi tanti anni di lavoro a scuola, noi “esperti esterni” (psicologi, educatori, formatori) siamo investiti sempre di più dalla richiesta di soluzioni: ai conflitti, al bullismo, alla dispersione, ai disturbi alimentari, alle sofferenze più diverse che attraversano un’età di per sé tanto bella e tanto travagliata.
La scuola ci chiede ricette, soluzioni rapide e certe, e soprattutto indolori, che si occupino, come le medicine, del solo paziente, fuori dal contesto e dalle relazioni in cui è immerso, senza che nessun altro si metta in gioco o in discussione.
Ma i ragazzi protagonisti dei tumulti che agitano la comunità scolastica e riverberano nella società, non sono monadi, sono parti di un sistema di relazioni ricco e complesso che ci coinvolge tutti: dai compagni di classe agli insegnanti, e tutti gli adulti che entrano a scuola, oltre che, inevitabilmente, alle famiglie, ed è in quel sistema di relazioni che ogni agito ha un suo significato e una sua possibile evoluzione.
La priorità a scuola, il bisogno dichiarato, come in “Adolescence”, sembra essere, prima di tutto, quello di “neutralizzare” il soggetto pericoloso, renderlo inoffensivo, metterlo di fronte alle sue responsabilità.
Nella miniserie colpisce l’ uso sproporzionato della forza e le misure adottate come se ci si trovasse di fronte a una minaccia terroristica, in osservanza a un protocollo che risponde a un codice, un 10.51, che detta alla polizia ogni singola mossa, e che non tiene conto di nessuna altra variabile: età del sospettato, pericolosità, contesto.
A scuola invece il bisogno di neutralizzare il soggetto pericoloso (“raddrizzare”, ho sentito dire spesso) prende forma nelle sanzioni disciplinari, ma appare come un compromesso dettato dalla frustrazione, sembra la resa degli adulti di fronte ad adolescenti che non riescono a gestire e soprattutto a capire, perché non si sono presi il tempo per ascoltarli, molto spesso nel solco delle “regole da rispettare” e forti del sentimento di giustizia a difesa delle vittime (presunte, potenziali, reali).
La sensazione è che siano gli adolescenti, loro malgrado, a dettare la linea agli adulti. La scuola, come il resto della società, reagisce, spesso scomposta e di pancia, ai fatti più eclatanti.
Per giustificare l’educazione sentimentale troviamo forza nei femminicidi, per educare alle relazioni tra pari ci appelliamo al bullismo, per rispettare le differenze di religione, cultura, provenienza, chiamiamo in causa il razzismo e così via. È come se non fossimo in grado di immaginare una società giusta nei rapporti e nelle relazioni, tanto da mettere in campo ciò che crediamo utile ad educare bambine e bambini, ragazze e ragazzi.
Ovviamente non è così, o non è solo così: molte e molti hanno un’idea di società giusta e cercano di raccontarla e praticarla da decenni, dentro e fuori la scuola, dimostrando che funziona, ma non basta a far diventare queste idee “la scuola che vogliamo”, anzi, è una comunità che viene continuamente vessata da diktat sgrammaticati e maldestramente ideologici.
Le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi, hanno diritto a una scuola e una comunità di adulti che li ascolti e li sappia aiutare a stare in relazioni sane, giuste, equilibrate, con il tempo che tutto ciò richiede, senza scorciatoie, senza cedere alla paura, senza rincorrere gli eventi.
Molte cose sono cambiate negli ultimi anni, c’è un prima e un dopo l’era degli smartphone e dei social, c’è un prima e un dopo il covid, e i nostri adolescenti non sono gli stessi di prima soprattutto perchè gli adulti hanno smarrito il loro ruolo, a scuola e fuori.
Abbiamo gli strumenti e la sensibilità per leggere questo cambiamento e interpretarlo, recuperando ognuno il suo ruolo, per una società di rapporti più giusti, e possiamo farlo se lo facciamo insieme. La scuola è il luogo privilegiato in cui tutto ciò è possibile, è necessario, e non è più rimandabile.